Zucchero, pinoli e uva “sultanina” erano arrivati in Europa dopo la Prima Crociata. Passavano per Venezia.
Sono questi gli ingredienti delle “fritole” veneziane, delle quali abbiamo la prima notizia da un “anonimo” del Trecento (il documento é custodito alla biblioteca nazionale Casanatense di Roma). Impastate e fritte per strada, spolverate di zucchero mentre erano ancora bollenti e disposte in grandi piatti di peltro con accanto gli ingredienti erano cosí buone -“boccon da poareti e da siori” che nel ‘600 la fritola venne proclamata dolce nazionale della Serenissima.
Nel 1619, a 70 fu concesso di diventare Associazione -quasi una Corporazione. Veri e propri venditori di “street food” veneziano, i fritoleri indossavano un grembiule e tenevano sempre in mano il vasetto dello zucchero. Secondo la legge, potevano girare liberamente per la cittá a vendere le loro prelibatezze, ma non dovevano urlare.

Il mestiere si ereditava e in mancanza di eredi era il Gastaldo (il capo delle singole arti) con l’approvazione dei magistrati (Giustizieri Vechi) a scegliere chi far entrare nella corporazione.
La Corporazione si sciolse solo nell’ Ottocento, ben dopo la caduta della Repubblica di Venezia. La loro insegna é ancora conservata al Museo Correr.

Goldoni celebra l’arte dei Fritoleri ne Il Campiello (1756): la protagonista Orsola è una fritolera, prepara i dolci e li vende al Cavaliere.
Pietro Longhi immortala la venditrice di frittelle in un famoso quadro conservato a Ca’ Rezzonico.

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