Insieme alle Lezioni Americane di Calvino e a Tu ed Io di Erri de Luca, Le Piccole Virtú di Natalia Ginsburg é il libro che ho, da piú di vent’anni, sul comodino. Che il mio comodino e i suoi annessi siano stati, in tutto questo tempo, quasi sempre a decine di ore d’aereo da me, non ne sminuisce l’importanza simbolica.

L’ho scoperto tardi, in realtá. Quando lessi “Lessico famigliare”, appena dodicenne, lo trovai un mattone quasi imperdonabile, ma lo finii. Cosa che annovero, il fatto di averlo finito di malavoglia, dico, tra le stupidaggini adolescenziali. Ora sono meno tenace e ho imparato a lasciar andare presto i libri, e le persone, che non mi piacciono.
Per colpa di questa prima testardaggine tardai una decina d’anni, mezza vita di allora, a leggere Le Piccole Virtú. La decisione di includerlo nella “top 3 da comodino”, invece, la presi subito.
Poiché é di cucina, e non del mio comodino, che dobbiamo parlare qui, ecco due parole su “Lui ed Io” uno dei miei racconti preferiti del libro, scritto nel 1961.

Lo stile della Ginzburg é scarno e preciso, lascia emergere grandi temi dalla descrizione di piccoli fatti concreti. In questo racconto autobiografico racconta, senza mai veramente raccontarla, la sua relazione con il secondo marito, l’anglista Gabriele Baldini, per anni direttore dell’ Istituto Italiano di Cultura a Londra.
La scritttura procede per opposizione, apre una finestra sulla quotidianitá della grande storia d’amore tra un estroverso e un’ introversa. Anche i gusti alimentari sono chiamati in causa per completare il quadro:
“A lui piacciono le tagliatelle, l’abbacchio, le ciliege, il vino rosso. A me piace il minestrone, il pancotto, la frittata, gli erbaggi.
Suole dirmi che non capisco niente, nelle cose da mangiare; e che sono come certi robusti fratacchioni, che divorano zuppe di erbe nell’ombra dei loro conventi; e lui, lui è un raffinato, dal palato sensibile.”
Fa un po’ sorridere leggerlo ora: a sessant’anni da quando il racconto é stato scritto, la definizione di “palato sensibile ” e gusti da “robusto fratacchione” si sono completamente invertiti e una “zuppa di erbe” sembra aprire orizzonti di sensibilitá piú ampia che “abbacchio e tagliatelle”. La frugalitá che Natalia deriva dalla sua famiglia, come lei stessa racconta in Lessico Famigliare, ci pare ora modernissima “sostenibilitá”.






E ancora, sul vino e la “cerimoniositá inglese, che ora in realtá troviamo anche nella piú sgangherata delle pizzerie<.
“In Inghilterra, vi sono certi ristoranti dove il cameriere usa questo piccolo ceremoniale: versare al cliente qualche dito di vino nel bicchiere, perché senta se è di suo gusto. Lui odiava questo piccolo cerimoniale; e ogni volta impediva al cameriere di compierlo, togliendogli di mano la bottiglia. Io lo rimproveravo, facendogli osservare che a ognuno dev’essere consentito di assolvere alle proprie incombenze.
Per quanto schiva, Natalia fu una protagonista importate della scena culturale del Novecento, e alla coppia non mancarono numerosissime occasioni di feste e riunioni sociali:
“Gli piacciono i ricevmenti. (…) Sta là solo mezz’ora, gli piace, per mezz’ora, chiacchierare con un bicchiere in mano; mangia molti pasticcini, io quasi nessuno, perché vedendo lui mangiare tanto penso che io almeno, per educazione e riserbo, devo astenermi dal mangiare; “

Ecco dunque il testo completo di questo racconto, per chi lo voglia leggere e non abbia accesso diretto…al mio comodino:
Per chi preferisca leggere dal blog, invece, ecco qui larghi brani del testo:
Lui ha sempre caldo; io sempre freddo. D’estate, quando è veramente caldo, non fa che lamentarsi del gran caldo che ha. Si sdegna se vede che m’infilo, la sera, un golf.
Lui sa parlare bene alcune lingue; io non ne parlo bene nessuna. Lui riesce a parlare, in qualche suo modo, anche le lingue che non sa.
Lui ha un grande senso dell’orientamento; io nessuno. Nelle città straniere, dopo un giorno, lui si muove leggero come una farfalla. Io mi sperdo nella mia propria città; devo chiedere indicazioni per ritornare alla mia propria casa. Lui odia chiedere indicazioni; quando andiamo per città sconosciute, in automobile, non vuole che chiediamo indicazioni e mi ordina di guardare la pianta topografica. Io non so guardare le piante topografiche, m’imbroglio su quei cerchiolini rossi, e si arrabbia.
Lui ama il teatro, la pittura, e la musica : soprattutto la musica. Io non capisco niente di musica, m’importa molto poco della pittura, e m’annoio a teatro. Amo e capisco una cosa sola al mondo, ed è la poesia.
Lui ama i musei, e io ci vado con sforzo, con uno spiacevole senso di dovere e fatica. Lui ama le biblioteche, e io le odio.
Lui ama i viaggi, la città straniere e sconosciute, i ristoranti. Io resterei sempre a casa, non mi muoverei mai.
Lo seguo, tuttavia, in molti viaggi. Lo seguo nei musei, nelle chiese, all’opera. Lo seguo anche ai concerti, e mi addormento.
Siccome conosce dei direttori d’orchestra, dei cantanti, gli piace andare, dopo lo spettacolo, a congratularsi con loro. Lo seguo per i lunghi corridoi che portano ai camerini dei cantanti, lo ascolto parlare con persone vestite da cardinali e da re.
Non è timido; e io sono timida. Qualche volta, pero*, l’ho visto timido. Coi poliziotti, quando s’avvicinano alla nostra macchina armati di taccuino e matita. Con quelli diventa timido, sentendosi in torto.
E anche non sentendosi in torto. Credo che nutra rispetto per l’autorità costituita.
Io, l’autorità costituita, la temo, e lui no. Lui ne ha rispetto. E* diverso. Io, se vedo un poliziotto avvicinarsi per darci la multa, penso subito che vorrà portarmi in prigione. Lui, alla prigione, non pensa; ma diventa, per rispetto, timido e gentile.
Per questo, per il suo rispetto verso l’autorità costituita, ci siamo, al tempo del processo Montesi, litigati fino al delirio.
A lui piacciono le tagliatelle, l’abbacchio, le ciliege, il vino rosso. A me piace il minestrone, il pancotto, la frittata, gli erbaggi. Suole dirmi che non capisco niente, nelle cose da mangiare; e che sono come certi robusti fratacchioni, che divorano zuppe di erbe nell’ombra dei loro conventi; e lui, lui è un raffinato, dal palato sensibile.
Al ristorante, s’informa a lungo sui vini; se ne fa portare due o tre bottiglie, le osserva e riflette, carezzandodi la barba pian piano.
In Inghilterra, vi sono certi ristoranti dove il cameriere usa questo piccolo ceremoniale : versare al cliente qualche dito di vino nel bicchiere, perché senta se è di suo gusto. Lui odiava questo piccolo cerimoniale; e ogni volta impediva al cameriere di compierlo, togliendogli di mano la bottiglia. Io lo rimproveravo, facendogli osservare che a ognuno dev’essere consentito di assolvere alle proprie incombenze.
Cosi, al cinematografo, non vuol mai che la maschera lo accompagni al posto. Gli dà subito la mancia, ma fugge in posti sempre diversi da quelli che la maschera, col lume, gli viene indicando. Al cinematografo, vuole stare vicinissimo allo schermo. Se andiamo con amici, e questi cercano, come la maggior parte della gente, un posto lontano dallo schermo, lui si rifugia, solo, in una delle prime file. Io ci vedo bene, indifferentemente, da vicino e da lontano; ma essendo con amici, resto insieme a loro, per gentilezza; e tuttavia soffro, perché puo essere che lui, nel suo posto a due palmi dallo schermo, siccome non mi son seduta al suo fianco sia offeso con me.Tutt’e due amiamo il cinematografo; e siamo disposti a vedere, in qualsiasi moento della giornata, qualsiasi specie di film. Ma lui conosce la storia del cinematografo in ogni particolare; ricorda registi e attori, anche i più antichi, da gran tempo dimenticati e scomparsi; ed è pronto a fare chilometri per andare a cercare, nelle più lontane periferie, vecchissimi film del tempo del muto, dove comparirà magari per pochi secondi un attore caro alle sue più remote memorie d’infanzia. Ricordo, a Londra, il pomeriggio d’una domenica; davano in un lontano sobborgo sui limiti della campagna un film sulla Rivoluzione francese, un film del ’30, che lui aveva visto da bambino, e dove appariva per qualche attimo un’attrice famosa a quel tempo. Siamo andati in macchina alla ricerca di quella lontanissima strada; pioveva, c’era nebbia, abbiamo vagato ore e ore per sobborghi tutti uguali, tra schiere grige di piccole case, grondaie, lampioni e cancelli; avevo sulle ginocchia la pianta topografica, non riuscivo a leggerla e lui s’arrabbiava; infine, abbiamo trovato il ciematografo, ci siamo seduti in una sala del tutto deserta. Ma dopo un quarto d’ora, lui già voleva andar via, subito dopo la breve comparsa dell’attrice che gli stava a cuore; io invece volevo, dopo tanta strada, vedere come finiva il film. Non ricordo se sia prevalsa la sua o la mia volontà; forse, la sua, e ce ne siamo andati dopo un quarto d’ora; anche perché era tardi, e benché fossimo usciti nel primo pomeriggio, ormai era venuta l’ora di cena. Ma pregandolo io di raccontarmi come si concludeva la storia, non ottenevo nessuna risposta che m’appagasse; perché, lui diceva, la storia non aveva nessuna importanza, e la sola cosa che contava erano quei pochi istanti, il profilo, il gesto, i riccioli di quell’attrice.
Io non mi ricordo mai i nomi degli attori; e siccome sono poco fisionomista, riconosco a volte con difficoltà anche i più famosi. Questo lo irrita moltissimo; gli chiedo chi sia quello o quell’altro, suscitando il suo sdegno; -Non mi dirai, -dice, -non mi dirai che non hai riconosciuto William Holden !
Effettivamente, non ho riconosciuto William Holden. E tuttavia, amo anch’io il cinematografo; ma pur andandoci da tanti anni, non ho saputo farmene una cultura. Lui se ne è fatto, invece, una cultura : si è fatto una cultura di tutto quello che ha attratto la sua curiosità; e io non ho saputo farmi una cultura di nulla, nemeno delle cose che ho più amato nella mia vita : esse sono rimaste in me come immagini sparse, alimentando sí la mia vita di memorie e di commozione ma senza colmare il vuoto, il deserto della mia cultura.
Mi dice che manco di curiosità : ma non è vero. Provo curiosità di poche, pochissime cose; e quando le ho conosciute, ne conservo qualche sparsa immagine, la cadenza d’una frase o d’una parola. Ma il mio universo, dove affiorano tali cadenze ed immagini, isolate l’una dall’altra e non legate da alcuna trama se non segreta, a me stessa ignota e invisibile, è arido e malinconico. Il suo universo invece è riccamente verde, riccamente popolato e coltivato, una fertile e irrigua campagna dove sorgono boschi, pascoli, orti e villaggi.
Per me, ogni attività è sommamente difficile, faticosa, incerta. Sono molto pigra, e ho un’assoluta necessità di oziare, se voglio concludere qualcosa, lunghe ore sdraiata sui divani. Lui non sta mai in ozio, fa sempre qualcosa; scrive a macchina velocissimo, con la radio accesa; quando va a riposare il pomeriggio, ha con sé delle bozze da correggere o un libro pieno di note; vuole, nella stessa giornata, che andiamo al cinematografo, poi a un ricevimento, poi a teatro. Riesce a fare, e anche a farmi fare, nella stessa giornata, un mondo di cose diverse; a incontrarsi con persone più disparate; e se io son sola, e tento di fare come lui, non approdo a nulla, perché là dove intendevo trattenermi mezz’ora resto bloccata tutto il pomeriggio, o perché mi sperdo e non trovo le strade, o perché la persona più noiosa e che meno desideravo vedere mi trascina con sé nel luogo dove meno desideravo di andare.
Se gli racconto come si è svolto un mio pomeriggio, lo trova un pomeriggio tutto sbagliato, e si diverte, mi canzona e s’arrabbia; e dice che io, senza di lui, non son buona a niente.
Io non so amministrare il tempo. Lui sa.
Gli piacciono i ricevmenti. Ci va vestito di chiaro, quando tutti son vestiti di scuro; l’idea di cambiarsi di vestito, per andare a un ricevimento, non gli passa per la testa. Ci va magari col suo vecchio impermeabile e col suo cappello sbertucciato : un cappello di lana che ha comprato a Londra, e che porta calato sugli occhi. Sta là solo mezz’ora, gli piace, per mezz’ora, chiacchierare con un bicchiere in mano; mangia molti pasticcini, io quasi nessuno, perché vedendo lui mangiare tanto penso che io almeno, per educazione e riserbo, devo astenermi dal mangiare; dopo mezz’ora, quando comincio un poco ad ambientarmi e a star bene, si fa impaziente e mi trascina via.
Io non so ballare e lui sa.
Non so scrivere a macchina; e lui sa.
Non so guidare l’automobile. Se gli propongo di prendere anch’io la patente, non vuole. Dice che tanto non ci riuscirei mai. Credo che gli piaccia che io dipenda, per tanti aspetti, da lui.
Io non so cantare, e lui sa. E’ un baritono. Se avesse studiate il canto, sarebe forse un cantante famoso.
Se avesse studiato musica, sarebbe forse diventato un direttore d’orchestra. Quando ascolta i dischi, dirige l’orchestra con una matita. Intanto scrive a macchina, e risponde al telefono. E’ un uomo che riesce a fare, nello stesso momento, molte cose.Fa il professore e credo che lo faccia bene.
Avrebbe potuto fare molti mestieri. Ma non rimpiange nessuno dei mestieri che non ha fatto. Io non avrei potuto fare che un mestiere, un mestiere solo : il mestiere che ho scelto, e che faccio, quasi dall’infanzia. Neanch’io non rimpiango nessuno dei mestieri che non ho fatto : ma io tanto, non avrei saputo farne nessuno.
Io scrivo dei racconti, e ho lavorato molti anni in casa editrice.
Non lavoravo male, ma neanche bene. Tuttavia mi rendevo conto forse non avrei saputo lavorare in nessun altro luogo. Avevo, con i miei compagni di lavoro e col mio padrone, rapporti d’amicizia. Sentivo che, se non avessi avuto intorno me questi rapporti d’amicizia, mi sarei spenta e non avrei saputo lavorare più.
Ho coltivato a lungo in me l’idea di poter lavorare, un giorno, a sceneggiature per il cinema. Tuttavia non ne ho mai avuta l’occasione, o non ho saputo cercarla. Ora ho perso la sperenza di lavorare mai a sceneggiature. Lui ha lavorato a sceneggiature, un tempo, quand’era più giovane. Ha lavorato lui pure in una casa editrice. Ha scritto racconti. Ha fatto tutte le cose che ho fatto io, più molte altre.
Rifà bene il verso alla gente, e soprattutto a una vecchia contessa. Forse riusciva a fare anche l’attore.
Una volta, a Londra, ha cantato in un teatro. Era Giobbe. Aveva dovuto noleggiare un frac; ed era là, in frac, davanti a una specie di leggio; e cantava. Cantava le parole di Giobbe; qualcosa tra la dizione e il canto. Io, in un palco, morivo di paura. Avevo paura che s’impappinasse, o che gli cadessero i calzoni del frac. Era circondato da uomini in frac, e di signore vestite da sera, che erano gli angeli e i diavoli e gli altri personaggi di Giobbe. E’ stato un grande successo, e gli hanno detto che era molto bravo.
Se io avessi amato la musica, l’avrei amata con pasione. Invece non la capisco; e ai concerti, dove a volte lui mi costringe a seguirlo, mi distraggo e penso ai casi miei. Oppure cado in un profondo sonno.
Mi piace cantare. Non so cantare, e sono stonatissima; canto tuttavia, qualche volta, pianissimo, quando son sola. Che sono cosí stonata, lo so perché me l’hanno detto gli altri; dev’essere, la mia voce, come il miagolare d’un gatto. Ma io, da me, non m’accorgo di nulla : e provo, nel cantare, un vivo piacere. Lui, se mi sente, mi rifà il verso; dice che il mio cantare è qualcosa fuori della musica; qualcosa di inventato da me.
Mugolavo, da bambina, dei motivi di musica, inventati da me. Era una lunga melopea lamentosa, che mi faceva venir le lagrime agli occhi.
Di non capire la pittura, le arti figurative, non me ne importa; ma soffro di non amare la musica, perché mi sembra che il mio spirito soffra per la privazione di questo amore. Pure non c’è niente da fare; non capiró mai la musica, non l’ameró mai. Se a volte sento una musica che mi piace, non so ricordarla; e allora come potrei amare una cosa, che non so ricordare ?
Ricordo, di una canzone, le parole. Posso ripetere all’infinito le parole che amo. Ripeto anche il motivo che le accompagna, al mio modo, nel mio miagolare; e provo, cosí miagolando, una sorta di felicità.
Lui sa comprare, in grande quantità, bicarbonato e aspirina. E’, qualche volta, malato, di suoi misteriosi malesseri; non sa spiegare che cosa si sente; se ne sta a letto per un giorno, tutto ravviluppato nelle lenzuola; non si vede che la sua barba, e la punta del suo naso rosso. Prende allora bicarbonato e aspirina, in dosi da cavallo; e dice che io non lo posso capire, perché io, io sto sempre bene, sono come quei fratacchioni robusti, che si espongono senza pericolo al vento e alle intemperie; e lui invece fine e delicato, sofferente di malattie misteriose. Poi la sera è guarito, e va in cucina a cuocersi le tagliatelle. Era, da ragazzo, bello, magro, esile, non aveva allora la barba, ma lunghi e morbidi baffi; e rassomigliava all’attore Robert Donat.Era così quasi vent’anni fa, quando l’ho conosciuto; e portava, ricordo, certi camiciotti scozzesi, di flanella, eleganti. Mi ha accompagnata, ricordo, una sera, alla pensione dove allora abitavo; abbiamo camminato insieme per via Nazionale. Io mi sentivo già molto vecchia, carica di esperienza e d’errori; e lui mi sembrava un ragazzo, lontano da me mille secoli. Cosa ci siamo detti quella sera, per via Nazionale, non lo so ricordare; niente d’importante, suppongo; era lontana da me mille secoli l’idea che dovessimo diventare, un giorno, marito e moglie. […]
Se gli ricordo quell’antica nostra passeggiata per via Nazionale, dice di ricordare, ma io so che mente e non ricorda nulla; e io a volte mi chiedo se eravamo noi, quelle due persone, quasi vent’anni fa per via Nazionale; due persone che hanno conversato così gentilmente, urbanamente, nel sole che tramontava; che hanno parlato forse un po’ di tutto, e di nulla; due amabili conversatori, due giovani intellettuali a passeggio; così giovani, così educati, così distratti, così disposti a dare l’uno dell’altra un giudizio distrattamente benevolo; così disposti a congedarsi l’uno dall’altra per sempre, quel tramonto, a quell’angolo di strada.
Lui ed io, Scritto nel 1961 da Natalia Ginzburg
Apparso nel 1962 in Le piccole virtù, Einaudi, Torino
Ed infine, riporto un’ intervista a del 1962 a Natalia Ginsburg, in tutta la sua superba introversione. Io e Lui era stato scritto appena un anno prima, e la raccolta era appena uscita. La vita non é stata facile per Natalia, ebrea per parte di padre, figlia, moglie e sorella di antifascisti (il primo marito Leone fu ucciso in carcere, il padre e i fratelli furono arrestati ma poi liberati), madre di cinque figli di cui due morti prematuramente e con gravi deficit, ma rimane una una delle donne chiave della letteratura del Novecento.