Le chiamavano “daucus carotae” giá gli antichi le amavano particolarmente: crescono e si conservano facilmente, sono adatte al trasporto e soprattutto hanno quel gusto “dolce” che in passato -quando lo zucchero era conosciuto ma rarissimo e il miele comunque costoso- era particolarmente ricercato.
Sono quelle che oggi chiamiamo “carote”, ma non solo.
All’ epoca dei romani infatti con il nome “carota selvatica” si indicavano radici di diverse varietá. Plinio (Nat His) ne descrive quattro tipi. Il medico Galeno (sec II) giá riesce a fare una distinzione tra le carote e le “pastinacche”.
L’ introduzione della “pastinacca” ( i romani non la distinguevano dalle carote selvatiche anche se oggi si riconosce siano due piante diverse) e’ attribuita all’imperatore Tiberio. La vide in Germania e ne apprezzo’ particolarmente la dolcezza. (Una bella descrizione della Pastinacca si trova qui). Si tratta di una radice simile alla carota ma piú grande e bianca. Si utlizza cotta e fu in gran voga fino a tutto il medioevo. Scomparve, almeno in italia, soppiantata dalla patata. E’ ancora abbastanza diffusa pero’ nel mondo anglosassone e in Francia (gli inglesi le chiamano “parnship”).
I Romani prediligevano le radici cresciute sotto terra per almeno due anni, alle quali toglievano le parti esterne legnose per utilizzare il “cuoricino”.

Era chiamata “carota” anche la radice che oggi ha il nome scientifico di sium sisarum (la sedanina). Gli inglesi la chiamano Skirret e anche questa ebbe gran diffusione non solo all’ epoca dei romani ma per tutto il medioevo.
C’erano poi le vere e proprie “carote selvatiche” ma non erano arancioni (sono diventate arancioni nel Seicento olandese, puoi leggere la storia completa qui). All’ epoca dei Romani si potevano trovare carote viola (prevalentemente), gialle o anche grige. Oggi nelle coltivazioni biologiche stanno ritornando di moda perche’ ogni “colore” di carota implica proprietá nutritive diverse.
Nella prima parte dei banchetti romani (la “gustatio”, una sorta di aperitivo moderno) era buona norma servire carote tagliate a listarelle, cosparse di “allec”, un garum piú leggero. In pratica: crudité di carote con salsa di acciughe. Una nonna della bagna cauda!

Apicius nel “De Re Coquinaria” le presenta in due modi: saltate in padella (frictae) e condite con vino e garum oppure bollite e condite con salsa di cumino.
Apicius (ricetta 122): Carotae frictae oenogaro inferuntur. (trad. Le carote fritte si condiscono con vino e garum)


PS
Se a questo punto a qualcuno venisse voglia di leggere direttamente tutte le ricette di Apicio, si trova open source tutta l’opera latina e varie traduzioni (un po’ scalcinate ma servono come guida) in inglese ( traduzione in inglese )

