Chichibio e…il pollo

Vi ricordate la novella di Chichibio e la gru?

A scuola non faceva tanto ridere, anzi mi era sempre sembrata orribile, ora l’ho riletta e mi son divertita molto. Forse perché l’umorismo sottile da ragazzini non si capisce -o forse perché le lezioni di letteratura italiana del liceo erano cosí noiose da seppellire qualunque guizzo di umorismo.

Chichibio e la gru da un manoscritto tardo medievale

La novella, dunque (dal Decameron, Boccaccio, Novella IV giornata VI).

Currado Gianfigliozzi, nobile banchiere fiorentino (sul significato di “nobile” nella Firenze medievale varrebbe la pena dilungarsi, ma non ora e non qui) ha cacciato una gru bella grassa e giovane e la manda a cucinare da Chichibio, cuoco Veneziano (perché i cuochi giá nel Trecento erano dei veri e propri “expat”).

Chichibio…, acconcia la gru, la mise a fuoco e con sollecitudine a cuocer la cominciò.” Attirata dal profumino dell’ arrosto, arriva Brunetta, “una feminetta della contrada …di cui Chichibio era forte innamorato“. Lei chiede una coscia della gru. Lui resiste un po’, neanche tanto, poi cede. E cosí si trova costretto la sera a servire a cena la gru con una coscia sola.

Currado, che aveva ospiti, si arrabbia, ma Chichibio gli assicura che la gru aveva una gamba sola e propone anzi di andare a verificare di persona «… e quando vi piaccia, io il vi farò veder ne’ vivi».

Escono dunque di prima mattina Chichibio e Currado e vicino a una palude vedono una dozzina di gru che dormono, naturalmente su una sola gamba. Chichibio giá gongola ma Currado non é tipo da farsi ingannare. “fattosi alquanto più a quelle vicino, gridò: «Ho, ho!», per lo qual grido le gru, mandato l’altro piè giù, tutte dopo alquanti passi cominciarono a fuggire“.

Chichibio sta per perdere la partita ma ha una battuta finale che ribalta tutto: «Messer sì, ma voi non gridaste “ho, ho!” a quella d’iersera; ché se così gridato aveste, ella avrebbe così l’altra coscia e l’altro piè fuor mandata, come hanno fatto queste».

Sipario.

Anzi no. Perché a parte il motto di spirito finale, e a parte le considerazioni sul fatto che una “bella brunetta” ottiene sempre quel che vuole, una parte interessante di questa novella é proprio…la gru arrosto. Di cui tra l’altro abbiamo la ricetta, sempre grazie all’ Anonimo Toscano (un manoscritto toscano del Trecento, quasi contemporaneo al Boccaccio).

Partiamo dunque dal fondo di questa ricetta: é il compilatore stesso ad avvisarci che per la preparazione si puo’ usare anche la carne di vitello (lasciamo perdere il castrone). Io aggiungo che si puo’ fare anche con il pollo, certamente saltando qualche passaggio.

Gru nel medioevo

La gru, dunque, va prima bollita e poi arrostita allo spiedo ma non completamente. E’ infatti prevista una terza cottura. In una padella si fanno soffriggere dadini di cipolla in lardo e zafferano, se in questa base si finisce di arrostire la gru, irrorandola di vino. La pietanza si serve in fette di pane con abbondante sugo di accompagnamento.

Con il pollo, dicevo, e saltando i primi due passaggi (bollitura e spiedo) che erano tipici delle cotture medievali ma che si rivelerebbero per noi dannosi, si puo’ preparare una pietanza saporita e divertente. Chi poi vuole completare l’effetto scenico, puo’ servire in tavola con una sola coscia e raccontare la Novella.

Spiedo medievale

Ecco la ricetta con le parole del Trecento:

Grua bene lavata, e bullita un poco in caldaia larga, mettila in lo spiedo, e arrostila, non perciò a pieno: poi abbi cipolla tagliata a modo di dadi, e bene fritta col lardo abbastanza, e colora col zaffarano. E abbi fette di pane alquanto abbrusticate, e di buono vino, cotto e mestato colla cipolla predetta: fa’ bullire la detta grua smembrata colle dette cose nel vino uno bollore. E nel brodo magro del detto savore molla il pane predetto: sopra uno taglieri grande, del savore, spezie e carne ordina gradatamente a solaio, come si conviene, e a la fine de la cocitura, ponvi del grasso del detto savore. Simile si può fare del capo di castrone o vitella, bene pelata, in acqua bullita; ma de’ non bene lessarli. E fatto ordinatamente, com’è detto di sopra, debbiasi mettere su cascio, e poi mangia.

Ora si, davvero, sipario.

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