Pizza, per volere di Giove

Spinto dal suo destino e dal volere degli dei (che ancora erano due questioni separate), Enea lascia la povera Didone dopo averla sedotta. Lei si uccide, lo maledice, e predice guerre eterne tra Europa e Nord Africa. Lui fa rotta verso una penisola protesa nel mediterraneo che impiegherá altri quasi tremila anni per diventare Italia.

Sbarca nel Lazio, si ferma a mangiare qualcosa sotto un albero insieme ai suoi fedelissimi compagni di fuga e al povero Iulo. A questo punto del poema Iulo é giá orfano di madre e poi della prima matrigna (Didone lo aveva molto amato e coccolato, anche per intervento di Venere, nonna di Iulo), ha perso da poco il nonno Anchise e suo padre ramingo e indeciso lo sta trascinando in giro per mari e terre sconosciute da parecchi anni.

Enea e i suoi, dunque, si apprestano a mangiare ma non avendo suppellettili utilizzano come piatti focacce di frumento (di Cerere) schiacciate. Le appoggiano sul prato e le riempiono di frutte e verdure selvatiche.

E tutto , questo (i piatti di pane, il pic nic arrabattato ecc.), Virgilio si affretta a precisare si svolge “sic Iuppiter ipse monebat” (come Giove in persona ordinava).

Mangiano tutto il “companatico” ma poi avendo ancora fame, addentano anche le focacce che -immaginiamo- erano a quel punto saporitissime e intrise di intingoli.

Ecco, in questa immagine di Enea che mangia nelle “mensae”, nei piatti, molti hanno visto un’ antenata della “pizza” moderna e per chi ha viaggiato un po’ non ci sarebbe niente di sorprendente. In India e in Africa tutt’ora si utilizzano come “suppellettili” dei pani morbidi e piatti (pita per gli arabi, paratha, chapati, naan per gli indiani) e sappiamo che in Italia per tutto il medioevo era comune che i ricchi mangiassero le pietanze in “piatti” fatti di pane che poi venivano a loro volta mangiati o ricucinati dai camerieri e dai servi. Senza contare che la “piadina” greca si chiama ancora oggi “pitta”.

Quel che mi pare piú interessante peró é quel “sic Iuppiter ipse monebat” messo li’ a metá verso da Virgilio. Giove, nel mezzo nel libro di fondazione di uno dei piu’ grandi imperi della storia, si occupa di “volere” che Enea e i suoi mangino in piatti fatti di pane. E’ Giove, perdinci! ce lo aspetteremmo occupatissimo a muovere eserciti in battaglia -e in effetti lo fa- e non a svelarci la ricetta della pizza!

Continuando a leggere, la spiegazione si fa piu’ articolata -ma non meno interessante. Il padre Anchise aveva infatti vaticinato a Enea quanto segue: “Quando, o figlio, spinto a lidi sconosciuti, esaurito ogni cibo, la fame ti indurrà a divorare anche i piatti, allora finalmente potrai sperare d’aver concluso le tue fatiche e trovato la nuova patria”.

Detto in italiano corrente il vaticinio di Anchise sarebbe: “quando ti troverai a mangiare pizza, allora lí metterai le fondamenta di quel che sará il grande impero romano” . Giove, dunque, colui che tira i fili di tutto, si occupa di “volere” che questo pic-nic a base di pizza avvenga proprio in Lazio e non in un posto diverso, che sarebbe sbagliato.

E baby Ascanio? E’ stato lui “nec plura alludens” (solo per gioco), dopo aver addentato la pizza, a dire al padre “ci stiamo mangiando anche i piatti”. E da questa sua frase, Enea ricorda la profezia di Anchise e decide di installarsi. Questo implica una serie di guerre violentissime con gran parte dei popoli italici pre-romani, ma questa e’ un’ altra storia

Dove c’e’ pizza, dunque, c’e’ casa. Per volere di Giove.


Ecco il testo, nella prima parte del libro VII:

  • Aeneas primique duces et pulcher Iulus
  • corpora sub ramis deponunt arboris altae
  • instituuntque dapes, et adorea liba per herbam
  • subiciunt epulis (sic Iuppiter ipse monebat)
  • et Cereale solum* pomis agrestibus augent.
  • Consumptis hic forte aliis, ut vertere morsus
  • exiguam in Cererem* penuria adegit edendi
  • et violare manu malisque audacibus orbem
  • fatalis crusti, patulis nec parcere quadris :
  • “Heus, etiam mensas consumimus !” inquit Iulus,
  • nec plura alludens. Ea vox audita laborum
  • prima tulit finem, primamque* loquentis ab ore
  • eripuit pater ac stupefactus numine pressit*.
  • Continuo : “Salve, fatis mihi debita tellus,
  • vosque, ait, o fidi Troiae, salvete, Penates !
  • Hic domus, haec patria est.”

Ed ecco la parafrasi in italiano:

i Teucri ancorarono la flotta lungo la riva erbosa del bel fiume. Enea, i capi supremi e Iulo si distendono sotto i rami d’un albero altissimo: preparano i cibi, mettendo sull’erba larghe focacce di farro come fossero piatti (secondo il volere di Giove), e li riempiono di frutta e verdura selvatici . Allora, consumati quei poveri cibi, la fame li spinse a addentare le sottili focacce spezzandone l’orlo. “Ahimè – fece Iulo, scherzando – mangiamo anche i nostri piatti.” Quelle poche parole inattese portarono la fine del lungo errare: il padre le raccolse dalla bocca di Iulo e le meditò a lungo stupito dell’oracolo che si era avverato. Poi disse: “Salve o terra assegnata dai Fati, e salve voi, fedeli Penati di Troia; questo è il paese promesso, questa la nostra patria. Ricordo ciò che disse il padre Anchise: – Quando, o figlio, spinto a lidi sconosciuti, esaurito ogni cibo, la fame ti indurrà a divorare anche i piatti, allora finalmente potrai sperare d’aver concluso le tue fatiche e trovato la nuova patria: potrai erigere con le tue mani le prime case e difenderle intorno con un bastione! – Ed eccola quella fame, una prova suprema che porrà fine alle nostre sventure…


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