Questa é una storia antica. Potrebbe essere piu’ antica dell’ umanitá, giá che hanno trovato noccioli di pesca fossili vecchi di 2,6 milioni di anni.

Ma la mia storia, di anni, ne ha appena una quarantina, come me.
L’unica buona ragione per tornare dalle vacanze, fin da quando ero molto piccola, era il banchetto di benvenuto che la nonna preparava di nascosto e ci lasciava in casa poco prima dell’ atterraggio. Era, per sua natura, un banchetto freddo che trasmetteva amore e discrezione: due delle tante qualitá della nonna. Era anche squisito, aldilá di qualunque nostalgia proustiana, perché la nonna cucinava oggettivamente bene. Tra i piatti indimenticabili di quei ritorni, spiccavano le pesche ripiene, una delle varie ricette piemontesi che erano finite chissá come nel repertorio “classico” della mia nonna fieramente lombarda.
Le ho amate tanto, quelle pesche, da chiederle -e ottenerle- in tutti i miei ritorni estivi, io sempre piu’ adulta e inquieta e la nonna sempre piu’ ammalata e stanca. E ora che la nonna “é per sempre” (da undici anni, e un mese oggi) le cucino ogni volta che posso pensando a lei.

Immaginatevi la sorpresa, qualche giorno fa, immersa nel mio inverno australe di pere e arance, di leggere queste righe sul Regimen Sanitatis, il manuale di dietetica medievale della Scuola di Salerno che sto studiando:
XLII
Persicis, racemis, et passulis.
..
Persica cum musto vobis datur ordine justo
Sumere, sic est mos nucibus sociando racemos.
Passula non spleni, tussi valet , est bona reni
Che nella traduzione del pavese del 1835 del Cavalier Magenta, non letteraria ma fedele al senso generale, suona cosí:
42-0
Delle pesche, e delle uve fresche ed appassite.
—
Ben a retto fine intendi
Se la pesca col vin prendi ;
Com’ è l’ uso che s’ associ
Uva fresca colle noci ;
Non la milza , ma gran beni
Dalla passa han bronchi e reni.

Parla di pesche da accompagnare con vino, noci e uva passa. Per essere un libro di dietetica, continua a starmi estremamente simpatico.
Di savoiardi e cioccolato certo non puo’ parlare, perché nel XI secolo non ne sapevano ancora nulla, ma nella sua essenza questa ricetta sembra proprio l’antenata delle mie amate pesche ripiene alla piemontese.
Lascio la ricetta di Pellegrino Artusi, piu’ simile a quella della nonna rispetto alla versione di Ada Boni. Noi non mettiamo i canditi, ai savoiardi preferiamo gli amaretti e al vino bianco un liquore dolce. Ma, come dicevo sopra, é questione di cogliere l’essenza, e questa va benissimo.

Ricetta n° 697 tratta da: “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” di Pellegrino Artusi
«Pesche spicche grosse, poco mature, n. 6. Savoiardi piccoli, n. 4. Zucchero in polvere, grammi 80. Mandorle dolci con tre mandorle di pesca, grammi 50. Cedro o arancio candito, grammi 10. Mezzo bicchiere scarso di vino bianco buono. Dividete le pesche in due parti, levate i noccioli ingrandendo alquanto i buchi ove stavano colla punta di un coltello; la polpa che levate unitela alle mandorle, già sbucciate, le quali pesterete finissime in un mortaio con grammi 50 del detto zucchero. A questo composto unite i savoiardi fatti in bricioli, e per ultimo il candito tagliato a piccolissimi dadi. Eccovi il ripieno col quale riempirete e colmerete i buchi delle dodici mezze pesche che poi collocherete pari pari e col ripieno all’insù in una teglia di rame. Versate nella medesima il vino e i rimanenti grammi 30 di zucchero e cuocetele fra due fuochi per servirle calde o diacce a piacere e col loro sugo all’intorno. Se vengono bene devono far bella mostra di sé sul vassoio, e per una crosticina screpolata formatasi alla superficie del ripieno, prenderanno aspetto di pasticcini.»